lunedì 30 gennaio 2012

Lo Hobbit: un viaggio inaspettato, ma noi dobbiamo aspettare

Uno dei film più attesi del 2012 è sicuramente The Hobbit di Peter Jackson, la cui lunga gestazione non ha fatto altro che accrescere l'attesa dei fan della trilogia prodotta dalla fantasia di J.R.R.Tolkien. Per vedere la prima parte del prequel intitolata Lo Hobbit: un viaggio inaspettato bisogna purtroppo attendere fino a dicembre (la seconda parte invece uscirà nel dicembre 2013 con il titolo Lo Hobbit: andata e ritorno).

Per adesso possiamo gustarci solo il trailer ufficiale...



This Must Be the Place

Trama

Cheyenne è una rockstar che, dopo aver avuto successo negli anni Ottanta, ha deciso di vivere isolato dal mondo nella sua villa a Dublino assieme alla moglie. Nonostante non sia più in attività, continua a truccarsi come ai vecchi tempi, vivendo una vita tranquilla ma noiosa. L’improvvisa morte del padre costringerà il protagonista a intraprendere un lungo viaggio negli Stati Uniti che gli permetterà di scoprire le sue radici, di ricongiungersi con la figura paterna e infine di crescere come uomo.



This Must Be the Place – il nome si riferisce a una celebre hit dei Talking Heads molto amata dal regista italiano- è un’opera ambiziosa in cui Paolo Sorrentino vuole raccontare una storia per il mercato internazionale – il film è girato tra Dublino e gli Usa – inserendo però il suo tocco personale come sempre.

Dopo il capolavoro Il divo tutti gli occhi erano puntati sul talentuoso cineasta napoletano: le attese per la nuova opera erano quindi altissime, i rischi di sbagliare da parte di Sorrentino altrettanto alti. Ciononostante il regista porta in scena un lavoro che punta in alto, tutto affidato nelle mani di Sean Penn nel ruolo di Cheyenne, una rockstar di mezza età, celebre negli anni Ottanta, ormai “in pensione” e chiuso in una torre d’avorio, che continua a girare in strada truccato alla  Robert Smith dei Cure (nelle movenze ricorda però Ozzy Osbourne). Diciamolo subito: la performance dell’attore americano è quasi perfetta (a parte il doppiaggio italiano). Non era facile interpretare un personaggio grottesco, avvolto in una “maschera” fatta di make up che doveva allo stesso tempo trasmettere malinconia esistenziale, umorismo e lucidità di giudizio. Anche i personaggi secondari che il protagonista incontra nel corso del suo viaggio, al contempo fisico – nella provincia americana – e psicologico – alla ricerca della sua identità e del passato del padre –, sono interessanti e aggiungono un tocco di coralità al film costellato di tante piccole storie parallele della provincia americana: da quella dell’inventore del trolley a quella del cercatore di nazisti, ecc.

La storia rappresentata è in breve un romanzo di formazione di un uomo di mezza età rimasto adolescente (per questo è affezionato al suo trucco che lo fa apparire giovane e felice come se fosse ancora sulla cresta dell’onda), senza passato – non conosce nulla del padre – e senza futuro. La svolta nella sua vita avviene quando muore il padre e, per la prima volta dopo molti anni, deve vincere la paura di volare – metafora del timore di andare incontro al suo passato e di diventare adulto – per recarsi a New York al suo capezzale. Lì viene a conoscenza del fatto che il padre ha dedicato gran parte della sua vita a scovare un tedesco nazista di nome Lois Lange che l’aveva umiliato durante l’internamento in un campo di sterminio. Il “superficiale” Cheyenne non sa nulla dell’Olocausto. Quando partecipa a una lezione assieme a degli studenti in cui vengono proiettate delle immagini sulla vita nei lager, scatta in lui qualcosa che gli permette di vincere la paura e iniziare il viaggio alla ricerca di Lange e anche di se stesso.

Il film, in linea con il cinema di Sorrentino, è un’opera postmoderna ricca di ellissi, che ruota intorno a numerosi temi esistenziali, come: la morte, la solitudine dell’uomo, la felicità, l’amicizia, l’amore e la crescita interiore. Non tutto viene “mostrato” allo spettatore, che, disorientato e perplesso, deve fidarsi del regista per trovare un senso in ciò che vede. Spesso Sorrentino utilizza più il montaggio che le parole per dare significato all’azione: la bellezza delle sequenze ripaga in parte a qualche lacuna logico-narrativa della sceneggiatura. Si pensi per esempio alla carica simbolica dell’indiano che chiede un passaggio a Cheynne per tornare a casa, ossia nella prateria. Oppure alla scena del concerto, girata tutta con un’unica lunga inquadratura, in cui David Byrne si esibisce mentre si mette in moto alle sue spalle un complicatissimo meccanismo scenografico, mentre il protagonista è solo tra il pubblico. Colpisce anche la sequenza in cui Cheyenne incontra in un bar un tatuatore, che viene prima inquadrato da lontano sembrando una persona poco raccomandabile, mentre poi da vicino, con zoomate successive, si rivela una persona sensibile che entra in empatia con il protagonista.

Il ritmo del film è lento dal punto di vista narrativo, alla stessa maniera dei movimenti del protagonista. La lentezza dell’azione viene però riempita dal ritmo e dalla suggestione delle immagini – ottima come sempre la fotografia curata da Luca Bigazzi – e delle inquadrature: Sorrentino ci ha abituati a continui movimenti di macchina, con improvvisi zoom sui volti dei personaggi e jump cut che vivacizzano l’andamento della storia. Come nelle altre opere di Sorrentino, il protagonista viene massacrato dal regista con rapidi primi piani e zoom sui dettagli del volto come a voler mettere a nudo l’interiorità del personaggio e la sua solitudine esistenziale davanti al pubblico.

Bisogna però sottolineare anche qualche aspetto negativo di questa pellicola. Innanzitutto la colonna sonora non sembra essere all’altezza delle pellicole precedenti. La storia invece, sceneggiata come sempre dallo stesso Sorrentino, si sviluppa in maniera troppo lineare e classica, senza offrire nessun novità sul piano dei contenuti: un personaggio ormai spento “sfrutta” un episodio familiare negativo per intraprendere un viaggio alla ricerca di se stesso e delle sue radici. Un semplice viaggio di formazione insomma, con un finale scontato in stile hollywoodiano: il rigetto del trucco-maschera come simbolo di crescita interiore – dalla superficie delle cose alla sostanza – e di passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta. A mio avviso erano molto più originali le storie dei film precedenti, tutte incentrate sull’isolamento esistenziale del protagonista e con un epilogo a effetto pregno di significati: il suicidio-omicidio (L’uomo in più),  il riscatto finale della propria libertà con un gesto estremo (Le conseguenze dell’amore), la solitudine totale (L’amico di famiglia) e la solitudine di fronte al giudizio sulle proprie azioni (Il divo). 

In conclusione questo è complessivamente un buon film, ottimo sul piano estetico, ma non in grado di soddisfare le aspettative dei seguaci del cineasta napoletano che con Il divo aveva conquistato il mondo, coniugando in maniera perfetta la forma (le immagini) e i contenuti (la storia politica italiana e quella personale del machiavellico Giulio Andreotti).


VOTO: 


(già pubblicato il 6/11/2011 su Mondoattuale)


This Must Be the Place

Coming soon...

The Eagle: l'aquila che non vola

Trama

Il simpatico Panda Po, ormai diventato il Guerriero Dragone, deve proteggere la Valle della Pace, aiutato dai cinque amici Cicloni (Tigre, Vipera, Scimmia, Gru e Mantide). La nuova minaccia si chiama Lord Shen, un crudele pavone bianco che vuole conquistare la Cina con un’arma micidiale. Po, incaricato di fermare Shen, scoprirà poco alla volta le sue vere origini…




Il film diretto da Kevin Macdonald, basato sul celebre romanzo L’Aquila della ix Legione scritto da Rosemary Sutcliff (1954), comincia male, continua peggio e finisce nel peggiore dei modi. Non sto parlando della storia del protagonista Marco Aquila (interpretato da uno Channing Tatum fuori ruolo), ma del film nel suo complesso.

Cominciamo dalla linea narrativa, che scorre in modo troppo lineare e prevedibile. La storia si consuma tutta in due viaggi compiuti dal protagonista e dallo schiavo Esca: uno di andata al di là dei confini dell’impero romano alla ricerca della verità sulla scomparsa della ix Legione, nella terra abitata dai Caledoni, una tribù della popolazione dei Pitti; l’altro di ritorno verso la terra “civilizzata” dai Romani. A parte qualche flashback onirico, tutta la narrazione si svolge secondo i canoni classici hollywoodiani, regalando poche sorprese allo spettatore, incluso il finale che sarà un happy ending.

Ma i difetti di The Eagle non finiscono qui. Tutta la pellicola si mantiene su un ritmo molto basso e, per essere etichettato come un film d’azione e in costume, è davvero paradossale. La colonna sonora non aiuta certo ad alzare l’andatura del film in quanto ricopre un ruolo del tutto marginale. Possiamo tranquillamente definirla un “rumore di sottofondo” visto che non dà mai espressività alle inquadrature che dovrebbe invece sostenere e animare.

Anche i dialoghi sono pessimi: banali e superficiali non affrontano mai argomenti filosofici, psicologici o antropologici. Eppure la storia offrirebbe qualche spunto in proposito, come per esempio l’importanza dell’onore nella società romana, visto che la leggenda narra che i discendenti dei soldati della Nona avevano perso il rispetto dei propri concittadini solo per il sospetto di aver perso l’aquila imperiale.

Anche la regia lascia molto a desiderare: i movimenti di macchina sono molto discutibili. Da segnalare anche molte incongruenze storiche e logiche a dir poco grossolane: come fa un manipolo di reduci romani invecchiati per vent’anni nei boschi della Scozia a resistere a un’intera tribù di giovani Caledoni? Perché Marco Aquila ed Esca hanno sempre la barba ben rasata mentre percorrono decine di kilometri nei boschi delle Highlands per giorni interi? Infine, nell’ultima sequenza del film la macchina da presa inquadra degli stivali (con suola in gomma!) indossati dai due personaggi principali. Un errore storico davvero abnorme se consideriamo che la storia si svolge nel II secolo D.C. e gli stivali diventeranno di moda solo nel Medioevo!

In conclusione The Eagle è un film che delude molto e non regala nessuna emozione allo spettatore. Eppure la celebre leggenda sulla scomparsa della ix Legione offriva degli spunti interessanti per costruire una bella sceneggiatura. C’era davvero bisogno dell’ennesima  pessima “americanata” ambientata all’epoca dell’impero romano? 

VOTO: 


(già pubblicato il 9/10/2011 su Mondoattuale)


Kung Fu Panda 2

Trama 

Il simpatico Panda Po, ormai diventato il Guerriero Dragone, deve proteggere la Valle della Pace, aiutato dai cinque amici Cicloni (Tigre, Vipera, Scimmia, Gru e Mantide). La nuova minaccia si chiama Lord Shen, un crudele pavone bianco che vuole conquistare la Cina con un’arma micidiale. Po, incaricato di fermare Shen, scoprirà poco alla volta le sue vere origini…



Il sequel di Kung Fu Panda, diretto dalla cineasta Jennifer Yuh Nelson, affronta in maniera più “matura” le avventure del simpatico Panda Po, ormai diventato il leggendario Guerriero Dragone. Se da una parte il protagonista è un esperto maestro di Kung Fu, dall’altra vive con angoscia il proprio passato. L’incontro / scontro con Lord Shen, un diabolico pavone bianco, riaccende in lui i ricordi dell’infanzia, che sono solo frammenti incomprensibili di un puzzle che va ricostruito. L’idea centrale di questo film è dunque lo scontro tra la razionalità del kung fu – l’autocontrollo e il distaccamento dalle emozioni – e il mondo dell’inconscio, una dicotomia che esplode ogniqualvolta il protagonista vede un segno o sente una frase che lo fa precipitare nel proprio trauma infantile irrisolto.

Nel corso del film, gradualmente, tassello dopo tassello, Po scopre il mistero che si cela dietro l’essere figlio dell’anatra Ping: la sua vera famiglia è stata sterminata da piccolo. E, per vendetta personale, supererà le proprie difficoltà psicologiche per sconfiggere Lord Shen legato a quel tragico evento.

Un’altra dicotomia interessante è quella costituita dalla lotta tra la forza dello spirito e la tecnologia. Infatti Lord Shen cerca di conquistare la Cina attraverso l’uso dei cannoni, un segno evidente dell’avanzata dell’età industriale in un mondo ancora dominato dalle arti marziali. Qui viene ripresa un po’ la storia del Giappone di metà Ottocento, quando, dopo il contatto con gli occidentali, cominciarono a diffondersi i fucili, i nemici più letali per i samurai. Anche nel film i guerrieri, privi di armi, sembrano costretti alla sconfitta e all’estinzione come classe sociale per colpa dell’avanzata delle armi da fuoco. Ma l’autocontrollo e la forza mentale derivanti da anni di allenamento kung fu consentono a Po e ai suoi amici di avere la meglio sugli avversari, portando la conclusione del film a un classico happy ending.

Una terza e ultima dicotomia riscontrabile in questa pellicola è quella relativa al ritmo: scene veloci, anzi velocissime di combattimento (non era meglio usare il ralenti per assaporare meglio le complicatissime coreografie delle battaglie?) si susseguono a sequenze lente, ma pregne di emozioni, in cui Po rivive la propria infanzia “regredendo” allo status di guerriero dilettante.

Kung Fu Panda 2 è in conclusione un film più maturo del precedente episodio che risente a mio giudizio in maniera positiva del cambio alla regia (il precedente episodio era stato diretto da Mark Osborne e John Stevenson). Non solo la qualità tecnico - artistica è elevata anche senza la visione in 3D, ma questa è un’opera che punta molto sulle emozioni degli spettatori, alternando in maniera equilibrata momenti leggeri a sequenze più drammatiche, tutte legate al passato di Po e al suo inconscio. E quando il Cinema emoziona tutti, adulti e bambini insieme, significa che è stato fatto un buon lavoro.

VOTO: 


(già pubblicato il 15/09/2011 su Mondoattuale)

I quattrocento colpi

Trama


Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) è un ragazzino parigino di 12 anni che vive l’adolescenza senza la comprensione dei propri genitori (la madre è fredda, mentre il padre è tale solo dal punto di vista legale). A scuola va male, viene punito continuamente e a casa si sente incompreso e poco amato. La situazione peggiora quando scopre che la madre ha una relazione con un altro uomo. Antoine, sempre più solo, può contare solo sull’amicizia col coetaneo Renè, con cui ruba una macchina da scrivere. Dopo il furto i genitori di Antoine decidono di mandarlo in riformatorio, da cui però riuscirà a scappare.




Il primo lungometraggio di François Truffaut – forse anche il più autobiografico – segna l’affermazione della nuova corrente francese chiamata Nouvelle Vague. Siamo alla fine degli anni Cinquanta e un gruppo di giovani cinefili e critici legati ai Cahiers du cinéma propone un cinema personale, fortemente autobiografico, in contrasto con le convenzioni dell’industria e le tecniche classiche del montaggio hollywoodiano. Convinti che il regista debba esprimere una propria visione del mondo – “la politica degli autori” – sia nello stile che nella sceneggiatura, questi giovani cineasti parigini si fanno interpreti di una cultura quasi apolitica del divertimento e del consumo, tentando di catturare la realtà della vita senza artifici.

L’opera d’esordio di Truffaut, uno dei maggiori alfieri della Nouvelle Vague, si afferma a Cannes vincendo il premio per la miglior regia e fa emergere la nuova “onda” a livello mondiale. I quattrocento colpi è una pietra miliare della cinematografia internazionale, che deve molto al neorealismo. La triste storia del protagonista Antoine – in pratica l’alter ego del regista – è raccontata senza pietismi, in modo crudo ed estremamente realistico. È un ragazzo difficile, ribelle, che si scontra con tutte le istituzioni con cui viene a contatto: la famiglia, la scuola, la polizia e il riformatorio. Vengono così magnificamente esposti alcuni concetti marcusiani – come sistema, esclusione, repressione e società totalitaria – che  entreranno a far parte della cultura del Sessantotto, quando i giovani cercheranno di opporsi al potere in ogni sua forma.

Dal punto di vista tecnico-stilistico I quattrocento colpi presenta due celeberrime sequenze che diventeranno dei veri e propri modelli da seguire e citare da molti cineasti successivi: quella relativa al colloquio tra il protagonista e la psicologa del riformatorio e il sorprendente finale. Nella prima sequenza Truffaut sperimenta la tecnica della “trasgressione del campo/contro campo”. Antoine, seduto dietro un tavolo, mentre risponde alle domande della psicologa viene inquadrato frontalmente in mezzo primo piano. Le risposte si susseguono in una serie di dissolvenze incrociate legate alla voce fuori campo della psicologa, la cui inquadratura viene negata allo spettatore. Questa tecnica, che sovverte le consuetudini della “situazione dialogo” legata all’alternanza di campo e controcampo, è finalizzata a rafforzare il rapporto identificativo e affettivo tra lo spettatore e l’adolescente durante la sua confessione, permettendo di descrivere attraverso le immagini il suo smarrimento.

Infine, la lunga e sublime sequenza conclusiva – forse uno dei migliori finali della storia del cinema – è costituita dalla fuga di Antoine dal riformatorio-carcere verso la libertà, simboleggiata qui dal mare. La lunga corsa del protagonista termina improvvisamente sul bagnasciuga, quando, rimanendo meravigliato dalla visione del mare che non ha mai visto, si volta verso il pubblico e l’espressione del suo volto resta impressa indelebilmente nel fermo immagine più famoso della storia del cinema. Una tecnica innovativa per esprimere un finale aperto, così come innovativa fu la corrente della Nouvelle Vague.


(già pubblicato il 5/06/2011 su Mondoattuale)


domenica 29 gennaio 2012

Il discorso del re: una voce al servizio della nazione


Quanto valgono le parole se sei chiamato a guidare una grande nazione come il Regno Unito alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale? Intorno a questa domanda ruota la storia raccontata nell’opera Il discorso del re del regista inglese Tom Hooper, basata sulla sceneggiatura del veterano David Seidler (vittima lui stesso di balbuzie). Si tratta della tormentata storia personale del futuro re d’Inghilterra Giorgio VI (interpretato magistralmente da Colin Firth), che, seppure afflitto da balbuzie, si trovò a guidare inaspettatamente una nazione dopo l’abdicazione del fratello.

Negli anni Trenta, con la piena affermazione della società di massa, i discorsi pubblici dei capi di Stato si trasformano gradualmente in eventi da gestire efficacemente sul piano della comunicazione per tenere unito un popolo e creare consenso attorno alle scelte politiche. Il principe Bertie, figlio di re Giorgio V, fallisce il suo primo discorso alla radio nel 1925 durante la cerimonia di chiusura a Wembley della Empire Exhibition. La radio, unico medium di massa di quell’epoca, consente di far entrare i leader politici direttamente nelle case dei cittadini grazie alle parole trasmesse via etere. Se prima a sentire la voce del sovrano erano solo pochi “fortunati” che si trovavano nel luogo della cerimonia pubblica, adesso tutti i cittadini diventano i potenziali destinatari del messaggio. E la famiglia reale, come una ditta qualsiasi, deve imparare a sfruttare il nuovo mass medium per continuare a governare col consenso del popolo.

Per questi motivi Bertie, su insistenza della moglie (Helena Bonham Carter), si convince a curare la sua balbuzie recandosi da Lionel Logue (Goeffry Rush) un logopedista australiano sui generis, ex attore, con cui instaurerà un lungo e profondo rapporto di amicizia che durerà tutta la vita. In realtà i problemi del principe nascondono ben altri disagi, legati alla freddezza con cui i genitori l’hanno cresciuto e alla costrizione a usare la mano destra invece che la sinistra. Quando il protagonista si reca nello studio di Lionel si sente protetto e, in diverse occasioni, sembra vivere qualche attimo di felicità, come se il suo terapista si trasformasse a tratti nel padre che non ha mai avuto. Ma fuori si sente a disagio, soprattutto quando è chiamato a “recitare” una parte che appare al di fuori delle sue possibilità: quella del re. Questo contrasto tra dentro e fuori è evidenziato abbastanza chiaramente dalla diversità della luce e dei colori dei due ambienti: lo studio di Lionel è inondato dalla luce ed è tappezzato di dipinti colorati non ben decifrabili; l’ambiente esterno invece è plumbeo e sempre avvolto dalla nebbia, quasi a simboleggiare la situazione di disagio interiore vissuta da Bertie nel mostrarsi in pubblico. La pellicola  termina con la prova più difficile per Bertie: il discorso alla radio del 1939, con cui  dichiara ufficialmente l’entrata in guerra del Regno Unito contro le armate naziste di Hitler, grazie al sostegno dall’amico-assistente Lionel.

Il film di Hooper scorre via piacevolmente, grazie a una linea narrativa semplice e lineare (forse anche troppo). Come dicevamo all’inizio, la messa in scena è minimale, frontale e spesso con macchina fissa; in sintesi mancano i virtuosismi da parte del regista. Tutto il film è giocato quasi esclusivamente sull’interpretazione degli attori principali. Se Firth e Rush non deludono – e a Fith è andato meritatamente un Oscar come miglior attore - sembra invece poco convincente la prova di Carter nei panni della futura regina Elisabetta, storicamente nota per avere un carattere vivace. Alla lunga la storia sembra diventare ripetitiva, raccontando i successi e le ricadute cicliche del protagonista, fino alla prova finale del discorso alla nazione per radio.

In conclusione Il discorso del re è sicuramente un buon film, ma non meritevole di vincere ben quattro statuette all’ultima edizione degli Oscar, soprattutto per le categorie “miglior film” e “miglior regia”. Come è tradizione, il verdetto della notte degli Oscar delude molto spesso.

VOTO: 


(già pubblicato il 15/03/2011 su Mondoattuale)

Top Ten 2010: un anno di grande cinema di animazione e di rivoluzioni tecnologiche




Ecco la mia Top Ten del 2010, un anno ricco di film di animazione e di rivoluzioni tecnologiche…

Inception di Cristopher Nolan

Porco rosso di Hayao Miyazaki

The Social Network di David Fincher

L’illusionista di Sylvain Chomet

La versione di Barney di Richard J. Lewis

Toy Story 3 di Lee Unkrich

Avatar di James Cameron

Potiche di François Ozon

L'uomo nell'ombra di Roman Polanski

Shutter Island di Martin Scorsese

*Per questa classifica sono stati considerati i film distribuiti nelle sale italiane nel corso del 2010 (Porco Rosso è uscito nel 1992 in Giappone).

sabato 28 gennaio 2012

Porco Rosso


Trama: L’asso dell’aviazione italiana Marco Pargot, dopo una misteriosa metamorfosi in un maiale antropomorfo, si guadagna da vivere facendo il cacciatore di taglie sui cieli dell’Adriatico, durante il periodo fascista. Schivo e scontroso, Porco Rosso non bada alla sua vita sentimentale, occupandosi solo di rimanere imbattibile nei duelli aerei. L’incontro con Fio Piccolo, una giovane meccanica e progettista di aerei, gli cambierà per sempre la vita.


Uscito in Giappone nel 1992, ma distribuito in Italia solo nello scorso novembre, Porco Rosso è l’ennesimo capolavoro del maestro dell’animazione nipponica Hayao Miyazaki, le cui opere ci regalano sempre grandi emozioni e viaggi in avventure fantastiche.

La storia ruota intorno a una maledizione - uno dei temi ricorrenti nella poetica di Miyazaki - che ha colpito il protagonista Marco Pogot (il nome è un omaggio ai fratelli fumettisti Nino e Toni Pagot, noti soprattutto per aver creato Calimero) trasformandolo in un maiale antropomorfo, dopo essere rimasto l’unico sopravissuto a una battaglia aerea della Prima Guerra Mondiale (“Sono sempre i buoni a morire” dice il protagonista). La metafora dell’uomo-maiale può essere interpretata in vari modo. Innanzitutto, nella concezione buddhista, il maiale simboleggia i difetti dell’uomo e Marco ne ha soprattutto dal punto di vista emotivo (non riesce ad amare Gina) e caratteriale. Nella mentalità nipponica invece, essere l’unico reduce di una battaglia in cui sono morti tutti i propri compagni è un fatto vissuto con vergogna e Marco sembra proprio rispecchiare questo senso di frustrazione. Forse però, le migliori letture di questa splendida metafora sono altre. L’essere diverso dagli altri fisicamente è emblema da una parte, del rifiuto di Marco verso il regime fascista (“Meglio porco che fascista” è una delle frasi cardine della storia), che infatti lo considera un dissidente politico da arrestare, dall’altro, simboleggia lo spirito “anarchico” dell’aviatore che non si vuole conformare alle regole sociali vigenti. Interessante è poi considerare l’aspetto animalesco di Marco come simbolo dell’attrazione sessuale maschile, che prescinde dalla bellezza esteriore. Forse, è proprio questo ad attrarre l’adolescente Fio Piccolo - ennesimo personaggio femminile al centro dell’universo poetico di Miyazaki - che si innamora di Marco e, alla fine della storia, grazie alla sua purezza interiore, lo libera dalla maledizione con un bacio.

Una delle peculiarità di Miyazaki è la semplicità della linea narrativa: attraverso l’uso della fiaba il maestro riesce sempre a toccare temi seri rivolti agli adulti, dall’amore al pacifismo, dall’ambientalismo alla lotta contro il progresso senza freni. Per questo, possiamo considerare Miyazaki un poeta che si esprime attraverso l’animazione. La sua poesia si sublima anche in Porco Rosso attraverso le musiche del fido Joe Hisaishi (che ha firmato la colonna sonora di tutti i capolavori del cineasta, formando una coppia simile per potenza emotivo-visivo-sonora al duo del genere western Leone-Morricone) e le immagini, semplici ma che penetrano nei cuori degli spettatori toccando la loro sfera emotiva. Straordinarie sono in particolare le panoramiche che ritraggono i paesaggi e le vedute dall’alto a bordo degli aeroplani, che rendono i luoghi fisici come Milano dei posti metafisici.

Il film è anche in parte autobiografico in quanto Miyazaki è figlio di un dirigente di una fabbrica di aerei (molti nomi di velivoli e piloti sono citazioni storiche precise) e, l’amore per il volo (si pensi ad esempio al Castello errante di Howl), è uno dei temi ricorrenti nella sua filmografia. Forse è anche una delle sue metafore preferite: la fuga dalla realtà e dal mondo razionale per “volare” grazie alla Settima Arte nel mondo della fantasia.

VOTO: 

porco rosso2
(già pubblicato il 16/01/2011 su Mondoattuale)

The Social Network: chi non è connesso non esiste


Cos’è un gruppo sociale? “Un insieme di persone fra loro in interazione con continuità secondo schemi relativamente stabili, le quali si definiscono membri del gruppo e sono definite come tali da altri” (Merton, Social Theory and Social Structure, 1949). Questa è la definizione che viene riportata nei manuali di sociologia. E intorno a questo concetto ruota gran parte della storia raccontata magistralmente dal regista David Fincher, che illustra la nascita del più grande social network dei nostri giorni: Facebook.

Ogni individuo è interessato a essere “connesso” agli altri tramite delle reti sociali, costituite da contatti e amicizie. Così come in economia conta chi ha più soldi, nella vita sociale si misura l’importanza del soggetto in base al numero e alla qualità delle persone che conosce. Il fondatore di Fecebook Mark Zuckerbeck (interpretato da Jesse Eisenberg), è un genio dell’informatica, ma nel mondo reale non è capace a relazionarsi: è schivo, fuori dai club di Harvard (dove accedono i più coraggiosi e facoltosi attraverso dei veri riti di iniziazione) e non riesce neanche a far sentire amata la sua ragazza, che, infatti, lo lascia all’inizio del film. Da qui prende avvio la vendetta dell’ingegnere genietto: per vendicarsi, non solo rovina la reputazione dell’ex tramite il suo blog, ma crea, grazie ad un amico, un sito (FaceMash) dove gli utenti (maschi) possono votare la preferita tra due foto di ragazze scelte at random da un algoritmo. Non mettono in conto però né se questa azione sia moralmente corretta, né i danni possibili sulle persone coinvolte. Come dicevano gli antichi “Verba volant, scripta manent”: la parola scritta ha una forza distruttiva enne volte superiore a quella orale e soprattutto, se consideriamo la Rete, non se ne perde memoria.

Zuckerbeck gradualmente comincia a pensare che si possa creare una realtà sociale virtuale, dove, i più svantaggiati nel mondo reale, possano avere più chance di successo, soprattutto in campo sentimentale e sessuale. Crea così una community virtuale (Harvard Connection), assieme ai fratelli Winklevoss. Ma l’ambizione di Zuckerbeck non ha limiti: vuole creare un mondo sociale globale parallelo, dove chi non è connesso è tagliato fuori da tutto, in altre parole non esiste. Nasce così “The Facebook. Una volta realizzato il suo sogno, il protagonista si troverà di nuovo solo, senza nemmeno gli amici cofondatori, che anzi gli hanno fatto causa.

Fincher ha scelto di dare un taglio preciso al film, offrendoci una lettura “forzata” della storia. Il racconto, che si apre con una delusione d’amore, non può che terminare con la ripresa del tormento del protagonista verso la sua ex, che non solo gli ha negato un rapporto reale nel mondo fisico, ma anche l’amicizia virtuale su Facebook. Partendo da questa considerazione, possiamo interpretare The Social Network come un film che racconta la nostra epoca, facendo emergere l’immagine di una società priva di valori  e amicizie reali, tutta concentrata sulla quantità e non sulla qualità. Non esistono personaggi virtuosi in questa pellicola. I valori di cui i protagonisti – tutti maschi che rappresentano la classe dirigente futura - si fanno portatori, sono: la ricchezza, il successo con le ragazze, essere al  centro delle relazioni sociali e arrivare primi in ogni competizione. Quindi, è possibile anche interpretare l’opera di Fincher come una critica alla società contemporanea, dove le relazioni umane sono diventate meno importanti di quelle virtuali.

Anche se consideriamo alcune scelte stilistiche del regista possiamo avvicinarci a questa chiave di lettura, per esempio analizzando la struttura temporale del racconto e il tipo di colonna sonora. Il regista ha scelto di utilizzare molto i flashback che si alternano alle sequenze che spiegano le cause in corso per i diritti su Facebook. Si crea così la sensazione di una realtà frammentata, caotica, e in ultima analisi, postmoderna. La scelta della colonna sonora poi, riveste a mio giudizio un ruolo primario per la riuscita dell’opera: le musiche, che danno in molte sequenze un ritmo da thriller alla pellicola, sono acide, taglienti, elettriche, veloci e fredde. In breve, creano una sensazione di spersonalizzazione, caratteristica non solo della Rete, un luogo virtuale creato con il sistema binario, ma anche della società odierna. Forse, anche questi suoni-rumori simboleggiano il frastuono e la velocità della società contemporanea, dove si vive sempre meno in luoghi fisici, e sempre più in luoghi virtuali freddi, dove le emozioni non guidano più le azioni delle persone, ma tutti devono essere presenti per esistere anche in quella reale.

Un’opera molto interessante questa di Fincher, non solo in termini cinematografici, ma anche sociologici, che potrà essere usata in futuro per spiegare la genesi di un fenomeno di massa (Facebook) che sta cambiando la società e il modo di relazionarsi delle persone.

VOTO:  


(già pubblicato il 30/11/2011 su Mondoattuale)

Scomparso il più grande produttore italiano


È morto l’11 novembre a Los Angeles uno degli uomini più importanti nella storia del Cinema degli ultimi sessant’anni. Oggi si celebrano i suoi funerali. Stiamo parlando di Dino De Laurentiis, il più grande produttore cinematografico italiano.

Al secolo Agostino De Laurentiis, più noto come Dino, nato a Torre Annunziata l’8 agosto 1919, era figlio di un commerciante di pasta. Tentò la fortuna a Roma come attore, ma capì che avrebbe avuto più successo dall’altra parte della “barricata”, ovvero nella produzione. Non gli mancavano né le idee, né il fiuto degli affari.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta produsse numerose pellicole celeberrime, nel pieno della stagione neorealista: Riso amaro (G. De Santis, ’48), Napoli milionaria (’50, E. De Filippo), Dov’è la libertà (Rossellini, ’54), Miseria e nobiltà, La Grande guerra (’59, Monicelli). Con il produttore Carlo Ponti, De Laurentiis creò una casa di produzione, che diede vita al primo film italiano a colori: Totò a colori nel 1952. Durante il “periodo italiano” De Laurentiis produsse anche due opere di Fellini (La strada e Le notti di Cabiria), premiate entrambe con l’Oscar per miglior film straniero.

Nella biografia del grande produttore italiano lo spartiacque più significativo fu senza dubbio la decisione di trasferirsi negli Usa, dopo l’introduzione nel 1965 della legge Corona che predisponeva dei sussidi di Stato solo per i film al 100% italiani. Per De Laurentiis era una legge deleteria: «Richiedeva che per definire un film “italiano”, e candidarlo quindi a ricevere finanziamenti pubblici, dovevano essere italiani il regista, la metà degli sceneggiatori tre quarti degli attori e dei tecnici. Una limitazione che ha tarpato le ali alle produzioni, alla creatività, alla libertà. È anche per questo motivo che me ne sono andato dall’Italia per lavorare in America» (dal Sole 24 Ore, 15 settembre 2009).
Decise così di dare nuova vitalità alla carriera trasferendosi negli Usa, dove i produttori avevano le mani più libere. Tra i film prodotti negli Usa, vanno ricordati: Serpico (Sidney Lumet, 1973), Il giustiziere della notte (Michael Winner, 1974), I tre giorni del condor (Sideny Pollack, 1975), Dune e Velluto Blu di David Lynch e più di recente Hannibal di Ridley Scott.
Io personalmente sono legato a due film poco trattati dai critici: Waterloo (Sergei Bondarchuk, 1970) e Flash Gordon (Mike Hodges, 1980). Il primo è un grande film storico, con Orson Welles (nei panni di Louis xvii), Cristopher Plummer (nel ruolo di Wellington) e un intenso Rod Steiger (nella parte di Napoleone); il secondo è invece più noto per la colonna sonora dei Queen. Com’è noto, all’epoca dell’uscita nelle sale Flash Gordon fu un flop total, ma di recente si è trasformato – come spesso succede – in un cult movie.

Una carriera straordinaria, ai limiti della leggenda, quella di Dino De Laurentiis, capace come pochi di attraversare i decenni, risollevandosi sempre dopo gli insuccessi (tra cui anche il fallimento degli studi di Dinocittà). È stata un’avventura epica forse irripetibile, lunga sessant’anni, con decine e decine di film prodotti, giustamente suggellata con l’Oscar nel 2001. 

(già pubblicato il 15/11/2010 su Mondoattuale)


A Serious Man


Trama: Larry è un professore di fisica ebreo che sogna di entrare definitivamente nel mondo accademico. La sua vita viene però improvvisamente sconvolta da una serie di eventi imprevisti: la moglie chiede il divorzio rituale per risposarsi con un amico di famiglia, il figlio attende di festeggiare il suo Bar mitzvah, la figlia gli ruba dei soldi per rifarsi il naso, uno studente coreano tenta di corromperlo e una vicina sexy gli turba i sogni. Per uscire da questo momento esistenziale difficile, Larry decide di rivolgersi a tre rabbini…



Qual è il senso delle cose che ci capitano nella vita? È tutto frutto del caso o di un disegno divino? Intorno a questa questione esistenziale ruota l’ultima fatica dei fratelli Coen, che mettono in scena una commedia sugli ebrei ironica, sprezzante ed enigmatica, ambientata nel 1967 in una cittadina del Mid-West americano. Non è un caso che il protagonista sia un professore di fisica, un uomo “serio”, per bene, rispettoso della tradizione ebraica, che cerca nelle formule matematiche una via per risolvere i problemi della vita. Una serie di eventi familiari e professionali però lo mettono alla prova, così come accade a Giobbe nella Bibbia. Come lui, anche Larry non perderà mai la fede, nonostante mille problemi (tra cui il distacco dai figli), anzi, cercherà proprio nei riti e nella tradizione della sua religione una chiave di lettura di quello che gli sta capitando. Chiederà udienza anche a tre rabbini, in ordine crescente di età e importanza, per capire cosa vuole Ashem (il Signore) dalla sua esistenza. I tre saggi (in realtà due perché il terzo non lo riceve in quanto impegnato a meditare) non hanno risposte facili da dargli: l’unica via è non fare domande, essere un uomo serio, pronto ad aiutare gli altri e ad accettare il volere divino con rassegnazione, senza cercare di comprenderlo dal punto di vista umano.

I Coen, con questa brillante commedia in parte autobiografica, cercano di mettere alla berlina in modo ironico e originale il mondo della cultura ebraica, un po’ alla Woody Allen. La storia di Giobbe viene contestualizzata nell’America degli anni Sessanta sconvolta dalla forza del rock e della trasgressione (alcuni chiari riferimenti sono l’uso di hashish del figlio tredicenne Danny, la focosa vicina che incarna l’erotismo, l’esigenza estetica di un intervento rinoplastico della figlia Sarah e il tradimento della moglie). Larry cerca di risolvere i suoi problemi in modo serio e ortodosso, secondo i dettami della sua religione, ricca di usanze e storie che si perdono nella notte dei tempi. Nonostante questa integrità morale e religiosa, non riesce ad uscire fuori dai guai e a rientrare nelle grazie del Signore come invece accadeva al personaggio biblico. Anzi, anche il finale, aperto e pregno di significati simbolici, non ci fa presagire niente di buono all’orizzonte, dove invece si scorge un tornado devastante pronto a seminare distruzione (e a spazzare via una bandiera americana enigmaticamente inquadrata).

In conclusione, un film geniale (soprattutto nella sceneggiatura e nel montaggio), dal ritmo serrato e ricco di ironia, con una magistrale interpretazione di Michael Stuhlbarg. Una storia che si presta a diverse letture interpretative, soprattutto per chi conosce più a fondo la cultura giudaica. 


VOTO: 


(già pubblicato il 4/11/2010 su Mondoattauale)


La passione




Trama: Gianni Dubois (Silvio Orlando) è un regista di mezza età in piena crisi creativa. Gli si presenta l’ultima occasione: girare un film con una stella della televisione (Cristina Capotondi). Mentre le idee continuano a mancare per il suo nuovo film, Dubois è costretto anche a dirigere una Sacra Rappresentazione in un paesino toscano: è il risarcimento per i danni causati agli affreschi di una chiesa per la rottura dei tubi di casa sua. Grazie proprio a questo imprevisto, il protagonista, aiutato da un amico attore outsider (Giuseppe Battiston), ritroverà l’ispirazione.



Carlo Mazzacurati torna a dirigere un film dopo il buon lavoro fatto tre anni fa con La giusta distanza, opera nella quale esplorava il giornalismo di provincia e il dramma di un omicidio. Ne La Passione, Mazzacurati racconta, con toni poetici e delicati, la crisi creativa di un regista di mezza età (magistralmente interpretato da Silvio Orlando, unico nel sapere unire i momenti drammatici a quelli comico-grotteschi), che non riesce più a confrontarsi con il mondo del cinema sempre più avvelenato dalle logiche di profitto. Il protagonista è un intellettuale solo, che non viene aiutato e compreso da nessuno, in un’Italia devastata dall’arroganza e dall’ignoranza delle persone che detengono il potere e i capitali. Ci sono infatti diversi personaggi emblematici da questo punto di vista, che sottolineano il baratro in cui è precipitato il nostro Paese in tutti i campi: un produttore cinematografico che pur di guadagnare suggerisce di usare un’attrice televisiva viziata e priva di talento; un sindaco (Stefania Sandrelli) cinico, che rappresenta la bassezza di tutta la classe politica; l’attore – metereologo Abbruscati (Corrado Guzzanti) che si crede di essere talentuoso, ma in realtà è solo una macchietta. Nella solitudine e nel vuoto di idee, Dubois trova aiuto solo in Ramiro (Giuseppe Battiston), che come lui vive la condizione di outsider. Ramiro è infatti un attore di strada ex galeotto, che ama il suo lavoro e non lo fa per arricchirsi o per diventare un divo, ma per redimersi. Palese è la contrapposizione tra lui e gli altri due attori, Abbruscati e l’attrice televisiva, che non hanno sentimenti genuini. È chiaro il riferimento alla crisi del cinema italiano e più in generale del mondo dello spettacolo, in cui mancano persone modeste e di cuore.

Se il film parte con i toni della commedia più classica, nella seconda parte invece il dramma la fa da padrona. In un miscuglio tra farsa e realtà, si consuma il destino dei personaggi della storia, impegnati nella preparazione di una Sacra Rappresentazione pasquale, che dovrebbe essere un’opera drammatica ai confini del sublime. Invece, grazie all’interpretazione falsa e grossolana di Abbuscati (un Guzzanti in ottima forma), sembra trasformarsi in un momento grottesco, di farsa appunto. La situazione però si capovolge, quando, uscito di scena Abbuscati, subentra Ramiro, deciso a offrire tutto se stesso per la riuscita dello spettacolo. Immedesimatosi nel ruolo di Gesù, comincia a subire sulla propria pelle lo stesso calvario, come se dovesse espiare i suoi reati. La finzione non si distingue più dalla realtà e l’unica conclusione possibile, è la sua crocifissione (simbolo sempre di punizione sociale) assieme a due extra-comunitari, mentre si abbatte un temporale che disperde il pubblico. La catarsi allora si completa: Dubois, venuto a contatto con una realtà di provincia, popolata da persone vere, e aiutato da Ramiro che ha dato anima e corpo alla realizzazione della rappresentazione, riesce a trovare l’idea per il soggetto del suo nuovo film ed esce dal blocco creativo.

In conclusione, La passione è un bel film, che, come ha dichiarato Mazzacurati, vuole raccontare un momento di vuoto creativo e di uno sblocco, forse vissuto in prima persona dallo stesso regista. La scelta degli attori è stata sublime: Orlando, espressivo soprattutto nei momenti di silenzio, nel ruolo del cineasta fallito, Battiston nei panni di un outsider dal volto umano, Guzzanti nella parte di un attore cialtrone e freddo, infine la Capotondi in quella di un’odiosa attrice di fiction televisive. Va menzionata anche l’ottima fotografia di Luca Bigazzi. Certo, il tema non è originale e forse c’è qualche sbavatura qua e là (ad esempio si potevano evitare alcune situazioni comiche banali e in contrasto con il tono drammatico dominante), ma il lavoro di Mazzacurati non è da buttare. Il regista padovano, a mio avviso, meriterebbe maggiori attenzioni da parte dei critici cinematografici, per la sua poetica sempre attenta a tematiche importanti, ai sentimenti umani e ai personaggi comuni che popolano la realtà quotidiana.

VOTO: 



(già pubblicato il 13/10/2010 su Mondoattuale)