domenica 16 dicembre 2018

"Bohemian Rhapsody": l’attesissimo film su Freddie Mercury e i Queen





È da almeno dieci anni che si parla della realizzazione di un biopic sulla straordinaria e irripetibile storia dei Queen, leggendaria band inglese, e del suo carismatico leader Freddie Mercury, uno dei performer più grandi di tutti i tempi. Il progetto è finalmente giunto a conclusione con il film “Bohemian Rhapsody” di Bryan Singer (“X – Men”, “Operazione Valchiria”), prodotto tra gli altri dagli unici due componenti dei Queen ancora in attività: il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor.

L’idea di trasporre cinematograficamente l’incredibile vicenda artistica e personale di Mercury e soci era piena di insidie, con il rischio di ritrarre la “Regina” come un mito o di farne una macchietta. Un ruolo difficilissimo che è stato abbandonato anni fa da Baron Cohen per divergenze creative e toccato alla fine al giovane attore Ramy Malek, californiano di origini egiziane. In un lungometraggio di finzione di poco più di due ore era impensabile raccontare nei minimi dettagli l’intera carriera dei Queen e del suo carismatico frontman. E infatti il film si concentra sui primi 15 anni della band, dal 1970 al 1985, anno del Live Aid e dell’apogeo della formazione inglese in termini di popolarità e successo.

“Bohemian Rhapsody” è un film riuscito a metà perché non racconta in profondità né l’epopea dei Queen, né la poliedrica e indecifrabile personalità di Mercury. Un po’ come la vita di Freddie, veloce e pirotecnica, è un buon film d’intrattenimento ma presenta non pochi difetti e delude le aspettative dei più esigenti. Un’operazione che si concentra più nel riprodurre fedelmente alcuni episodi fondamentali della storia della band (tra tutti la lunghissima sequenza finale dedicata alla performance del Live Aid) ma senza darne un’interpretazione o un taglio d’autore. 

D’altro canto uno dei punti di forza della pellicola è sicuramente l’aver azzeccato l’attore protagonista Ramy Malek, calato perfettamente nei panni del performer nato a Zanzibar. La somiglianza con il personaggio originale cresce poi nella seconda parte del film, quando si passa agli anni Ottanta e ai famosi baffi del cantante.

Un altro asso nella manica del film è la colonna sonora (una delle migliori della storia del cinema), ma su questo aspetto non c’era da temere, visto lo straordinario repertorio musicale targato Queen. Le canzoni fungono anche da collante tra le diverse lacune della sceneggiatura.

“Bohemian Rhapsody” racconta bene la relazione amorosa e indissolubile tra Freddie Mercury e Mary Austin (Lucy Boynton): un rapporto nato a Londra agli inizio degli anni Settanta, quando prevaleva l’eterosessualità in Freddie e proseguito poi nella fase successiva, quella omosessuale, sotto forma di amicizia immortale. Tra i momenti più toccanti del lungometraggio va sicuramente annoverata la scena in cui Mary capisce che qualcosa è cambiato per sempre nel suo fidanzato, che però le assicura amore eterno perché nessun’altra persona lo comprenderà mai così bene come lei. Un amore immortalato nella bellissima canzone “Love of my life”, scritta da Freddie e contenuta nell’album-capolavoro “A Nigth at the Opera”.

Il film riesce anche a far rivivere alcuni dei maggiori momenti creativi della band, raccontando la genesi di alcune loro hit: da “Killer Queen” a “Bohemian Rhapsody”, passando per “We Will Rock You” e “Another One Bites the Dust”.  

La pellicola risente però di diversi problemi accaduti in fase di realizzazione, tra cui il licenziamento del regista Bryan Singer, sostituito da Dexter Fletcher che non figura tra i crediti. In “Bohemian Rhapsody” mancano i guizzi creativi sia sul piano della sceneggiatura che della regia, tenendo conto che il materiale di partenza era straordinario.

A parte Freddie Mercury, gli altri tre membri della band - John Deacon (Joseph Mazzello), Brian May (Gwilym Lee) e Roger Tayrlor (Ben Hardy) – appaiono solo marginalmente nel racconto, come amici-parenti del carismatico ma problematico frontman. Non viene mai fatto cenno ai miti musicali dei quattro musicisti e la genesi della band viene descritta in maniera molto superficiale. Per chi è un fan dei Queen sarà difficile accettare che nel film la cronologia degli eventi venga completamente ignorata e gettata nel caos.

La scelta di iniziare e chiudere il film con il concerto memorabile del Live Aid del 1985, che consacrò e rilanciò i Queen grazie alla migliore performance live di sempre, può simboleggiare la gloria immortale raggiunta da Freddie e soci, al di là della prematura scomparsa di Mercury e della conseguente fine della band. È discutibile però la scelta di dedicare ben quindici o venti minuti di pellicola alla minuziosa ricostruzione del live tenutosi allo stadio di Wembley, se non per ottenere lo scopo di far divertire il pubblico in sala e catapultarlo sul palco del Live Aid.

Il tema della bisessualità – omosessualità di Mercury viene rappresentato in termini molto banali e irrealistici. In tutta la pellicola si trova un’unica sequenza, poco trasgressiva, dedicata ai famosi party del cantante (basta vedere il videoclip di “Living on My Own” per farsi un’idea). In realtà i Queen erano famosi negli anni Settanta per organizzare feste faraoniche e memorabili (famosissimo il party per il lancio del disco “Jazz” a New Orleans nel 1978, con la partecipazione di lottatrici nude nel fango, nani, mangiafuoco, etc.), ma nella pellicola sembra che il solo personaggio vizioso sia Mercury, perso tra sesso, droghe e alcol, anche a causa dell’influenza di un personaggio negativo del suo entourage.

Nel film si addossa poi tutta la colpa del momentaneo stop delle attività del gruppo, nella prima metà degli anni Ottanta, all’egocentrismo di Freddie e alla sua voglia di intraprendere una carriera da solista. Nella realtà anche altri membri della band iniziarono a intraprendere carriere autonome (come nel caso del prolifero Roger Taylor) o collaborazioni (John Deacon), perché il successo dei Queen iniziava a pesare e a stressare tutti, soprattutto dopo il flop di “Hot Space” nel 1982. Erano quattro artisti straordinari dalle personalità poliedriche, forti e autonome che, quando veniva fuori la quadra del cerchio, formavano un’unica entità chiamata Queen.

“Bohemian Rhapsody” riesce comunque a emozionare in diversi momenti: dall’ilarità di alcune scene dedicate al lavoro in studio della band, alle sequenze coinvolgenti delle performance live. Toccante anche il momento in cui viene affrontato il tema dell’AIDS contratto da Mercuy e la sua consapevolezza che il tempo da dedicare alla musica inizia a scarseggiare.

Il film risulta essere pertanto un prodotto commerciale d’intrattenimento, più incentrato sul lato estetico che contenutistico, pensato a tavolino per non scontentare nessuno: né i fan dei Queen, né chi non sa nulla della loro storia (teenager su tutti). Una storia però così unica, ricca ed “epica” come quella di Mercury e compagni avrebbe meritato di essere gestita da mani migliori, per realizzare una pellicola più memorabile.

Il messaggio che esprime in maniera forzata il film è quello che i Queen siano stati prima di tutto una famiglia e un porto sicuro per il fragile e tormentato Freddie Mercury, immigrato in cerca di un’identità. Un taglio troppo scontato e banale per una pellicola così attesa. Davvero non si poteva mirare più in alto, parlando di questo straordinario personaggio che, nel bene e nel male, come il dio Mercurio, riuscì a connettere il cielo e la terra tramite la musica, la sua straordinaria potenza vocale e visione artistica?





mercoledì 12 dicembre 2018

“L’uomo che uccise Don Chisciotte” di Terry Gilliam






Dopo 25 anni di “making e remaking”, come si legge ironicamente all’inizio del film, è uscito nella sale il film di Terry Gilliam ispirato alle avventure del personaggio creato dalla penna di Cervantes: “L’uomo che uccise Don Chisciotte”.

Il giovane regista americano Toby Grisoni (Adam Driver) sta cercando di portare a termine in Spagna le riprese di uno spot pubblicitario ispirato alla leggenda di Don Chisciotte. Dieci anni prima Toby aveva girato il suo primo lungometraggio “The Man Who Killed Don Quixote” proprio nella stessa zona del nuovo set, scritturando in loco attori non protagonisti. Un giorno Toby si imbatte nuovamente negli ex protagonisti della pellicola, ognuno segnato profondamente da quell’esperienza. In particolare, un anziano calzolaio (Jonathan Pryce), che aveva interpretato l’Uomo della Mancha, è convinto di essere il vero e unico Don Chisciotte, scambiando Toby per il suo inseparabile Sancho Panza. È l’inizio di un’avventura straordinaria, a cavallo tra realtà e fantasia.

Terry Gilliam porta finalmente a compimento un progetto lungo 25 anni, pieno di disavventure di ogni tipo: problemi con i produttori, cambi di attori e sceneggiatura. Una storia raccontata nel documentario “Lost in La Mancha” del 2002. Si sa poco di cosa sia sopravvissuto del progetto originario, ma si può dire che “L’uomo che uccise Don Chisciotte” non sia altro che un modo originale di parlare di Don Chisciotte e del suo messaggio, al giorno d’oggi, prendendo spunto dalle disavventure vissute in prima persona dal regista stesso per la realizzazione dell’opera. Un modo per esorcizzare quindi questa incredibile via crucis e vendicarsi, in parte, anche dei torti subiti da alcuni produttori pescecani incontrati lungo la strada.

Un racconto metacinematografico in cui Toby non è altro che un alter ego di Gilliam: pressato dalla dura realtà quotidiana fatta di produttori avidi e di delusioni artistiche, ripensa a un film girato da giovane, mosso solo dalla passione per il cinema, per trovare nuovamente l’ispirazione per continuare le riprese dello spot.

Una pellicola in cui si respira per tutta la sua durata l’amore per la Settima arte e l’ossessione da parte del regista Toby/Gilliam per questa figura fantastica e leggendaria di Don Chisciotte. Un sognatore considerato dagli altri un folle, ma che in realtà ha il dono di saper svelare, grazie alla sua purezza d’animo, l’ipocrisia delle altre persone, che indossano delle “maschere”.

L’ultimo lavoro di Gilliam è ancora una volta un viaggio immaginifico, con passaggi continui dal piano della realtà a quello della fantasia attraverso trovate spesso brillanti e visionarie, per regalarci un intrattenimento pirotecnico non privo di riflessioni profonde sul cinema stesso.

I punti di forza del film sono la sua potenza visiva – dalle feste barocche alle lotte contro i mulini a vento –, un marchio distintivo nella filmografia del cineasta statunitense, e la recitazione sopra le righe di Jonathan Pryce (da gustare in lingua originale), già protagonista del capolavoro di Gilliam “Brazil”, capace di passare dal registro comico a quello drammatico nel giro di pochi secondi. Un ruolo che potrebbe portare Pryce a una nomination alla prossima notte degli Oscar.

“L’uomo che uccise Don Chisciotte” non è però privo di difetti, con molti momenti di confusione “anarchica” e una sceneggiatura con non poche faglie.

Gilliam però, come il suo eroe spagnolo, vuole volare ancora una volta in alto e non manca di cuore e coraggio: dopo aver lottato anche lui contro vari mulini a vento e giganti (Hollywood?), è riuscito a realizzare questo film divenuto una vera e propria ossessione. Un regista che si è guadagnato la fama di outsider portando sempre avanti le proprie idee visionarie e che, grazie a questo film, fa quasi commuovere per come ami quella fabbrica dei sogni chiamata cinema.






sabato 8 dicembre 2018

“Sharp Objects”: la serie già cult con Amy Adams



Camille Prekaer (Amy Adams) è una giornalista trentenne del “Chronicle” di St. Louis, alcolizzata e appena uscita da una recente riabilitazione per una grave forma di autolesionismo. Una malattia causata dai tanti traumi adolescenziali mai superati, tra cui la perdita dell’amata sorella minore Marian. Un giorno il suo capo le affida l’incarico di seguire per il giornale gli eventi che si stanno verificando a Wind Gap, in Missouri, città dove è nata. A Wind Gap, paesino di duemila abitanti dediti all’allevamento dei maiali, è morta una ragazzina, mentre un’altra è sparita. Camille accetta mal volentieri l’incarico, sapendo di doversi confrontare con la sua agiata famiglia e con i suoi vecchi demoni, che riappariranno immediatamente come incubi e allucinazioni sempre più violente non appena messo piede a Wind Gap.


L’abuso di alcol, anche di pessima qualità, sembra essere per Camille l’unico modo per alleviare una sofferenza lancinante, che si intensifica ancora di più una volta tornata nella claustrofobica e lussuosa villa coloniale di famiglia. Qui l’aspetta la prova più dura: il confronto con la fredda e autoritaria madre Adora (Patricia Clarkson), infastidita non solo dal ritorno della figlia dopo tanti anni perché non annunciato, ma ancor di più dal suo compito di reporter. Fare luce sui cruenti episodi che si stanno abbattendo sulla tranquilla comunità di Wind Gap, raccogliendo le testimonianze dei suoi (apparentemente) rispettabili abitanti, appare agli occhi ipocriti di Adora come qualcosa di oltraggioso se fatto da sua figlia, perché mette a repentaglio la reputazione della famiglia, una delle più antiche e importanti della cittadina, e lo status quo.

Camille, una volta rientrata a casa, conosce l’ambigua sorellastra Amma (Eliza Scanlen), mentre nella sua mente inizia a riapparire sempre più spesso il fantasma di Marian, morta da piccola accanto a lei. Inghiottita in un vortice di incubi, allucinazioni e autolesionismo, che si manifesta con il desiderio di ferirsi con qualsiasi oggetto tagliente a portata di mano (il suo corpo è interamente ricoperto da parole incise sulla pelle, inerenti al suo senso di colpa per la morte di Marian e agli abusi subiti da ragazzina), Camille riesce a fatica a portare avanti il suo lavoro che le permette di entrare in relazione con il detective Richard Willis (Chris Messina). Richard è l’unica altra persona “forestiera” che sta faticosamente cercando di scoprire la verità. Il male intanto si annida nella bigotta Wind Gap, dove ognuno sembra gentile ma nasconde dei piccoli segreti. La bambina scomparsa viene trovata morta e senza denti un paio di giorni dopo l’arrivo di Camille, davanti ai suoi occhi. Si sospetta la mano di un serial killer psicopatico e le malelingue del paese indirizzano le indagini sui soggetti più deboli, tutti uomini fragili. Qualcosa di terrificante però è in agguato e aspetta di colpire Camille…

“Sharp Objects” (traducibile in italiano con “Oggetti taglienti”) è una miniserie televisiva in otto episodi tra il thriller psicologico e il genere gotico-dark, basata sul primo omonimo romanzo di Gillian Flynn (“Sulla pelle” tradotto in italiano da Piemme), prodotta da HBO e andata in onda questa estate nei Paesi anglosassoni e recentemente in Italia su Sky Atlantic. Dopo una lavorazione lunga dodici anni, la serie creata da Marti Noxon e diretta da Jean-Marc Valléé (già regista di “Big Little Lies”) ha ottenuto un ottimo giudizio della critica e, a nostro parere, a buon ragione.

Fiore all’occhiello di questa storia, che indaga il lato femminile più oscuro e violento, è il personaggio enigmatico e anticonformista di Camille, interpretato in maniera memorabile da una grandissima Amy Adams: un’antieroina controversa che, come una “splendida rosa con le spine” (viene definita così da Adora in una scena), è una giovane donna affascinante ma piena di problemi. In cerca costante di affetto e di attenzioni, non riesce a superare i suoi traumi, causati da un mix micidiale di concause: un ambiente familiare deleterio, un paese bigotto e claustrofobico pieno di vizi e pregiudizi, un rapporto difficile con gli uomini a causa di uno shock (di natura sessuale) vissuto da teenager e della mancanza della figura paterna (Camille è figlia di primo letto di Adora), e la misteriosa morte violenta e prematura della sorellina. Non meno importante Camille ha
sviluppato fin da piccola una mentalità aperta che l’ha portata a trasferirsi in una grande città molti anni prima, rompendo violentemente il rapporto con il proprio cupo passato che però riaffiora sempre nel suo inconscio. Episodio dopo episodio Camille sembra sempre più priva di energie psico-fisiche per reggere l’onda d’urto di quello che le sta accadendo dentro e fuori di sé, ma, grazie anche all’aiuto costante dell’amico-capo-padre e del detective venuto da fuori, per cui sembra in parte provare affetto, dimostra una resilienza e un’autenticità fuori dal comune.

La trasformazione di Amy Adams in Camille è strepitosa, meritevole di vincere qualsiasi premio da qui ai prossimi mesi, dai Golden Globe agli Emmy. L’attrice americana, che riveste in questa miniserie anche il ruolo di produttore esecutivo, è perfettamente calata nella parte in ogni sequenza. Un ruolo difficilissimo che le è costata molta fatica: tantissime ore di trucco per “indossare” sulle propria pelle le parole incise da Camille, giornate lunghissime passate sul set e un viaggio nel mondo più inquietante della psiche femminile. Adams riesce a trasportare con grande empatia gli spettatori nel drammatico e oscuro vortice esistenziale di Camille, trasmettendo tutta l’angoscia di una persona sola inghiottita nel proprio dolore psicofisico da cui non sembra esserci via di fuga, nonostante gli sforzi e un grande cuore. Ci ricorderemo a lungo i vari momenti di smarrimento della fragile e ipersensibile Camille trasmessi da un volto terrorizzato e trasfigurato di Adams, capace di dare al personaggio una verosomiglianza eccezionale. Pare però che purtroppo non ci sarà, almeno a breve, la seconda stagione di “Sharp Objects” proprio perché Amy Adams non vorrebbe ritornare a ricoprire nuovamente un ruolo così professionalmente logorante.

La storia narrata in “Sharp Obejcts” ruota tutta attorno a un triangolo perverso di tre donne che non riescono ad amarsi: Camille, Adora e Amma. Anche le attrici Patricia Clarkson e Eliza Scanlen spiccano in tutti gli episodi per una recitazione sopra le righe, rispettivamente nei panni di una madre anaffettiva e mentalmente molto disturbata, e di una figlia bipolare e viziata. Adora vorrebbe trattare le figlie come bamboline (la casa delle bambole di Amma, che riproduce in scala l’abitazione reale, gioca un ruolo molto importante a livello simbolico) per essere al centro dell’attenzione e avere il controllo sulle loro vite, così come fa esteriormente nella sua vita sociale di paese, essendone una delle personalità più influenti. Amma, invece, si divide tra l’essere un’amabile figlia a casa e comportarsi come una ribelle scatenata e senza tabù non appena ci sia la possibilità di uscire, ricordando in parte la Camille adolescente.

Oltre al cast “Sharp Objetcs” vanta tra i suoi pregi anche una regia molto fluida. Jean-Marc Valléé sceglie di seguire la storia dal punto di vista di Camille, riprendendo le scene con la camera a mano e seguendo molto da vicino la protagonista, messa completamente a nudo. Amy Adams ha affermato di adorare questo stile del cineasta canadese, intento a mostrare la verità e a non nascondere le imperfezioni estetiche e psicologiche femminili. Una scelta azzeccata che rende la narrazione realistica e molto coinvolgente per il pubblico.

Altri due elementi che fanno di “Sharp Object” un’opera di grande spessore sono la musica e la presenza di un metatesto seminascosto. Per quanto riguarda la colonna sonora, c’è da segnalare la presenza massiccia di canzoni dei Led Zeppelin, ascoltate in macchina dalla ribelle Camille tramite il suo cellulare. In contrapposizione ai suoi gusti rock spicca la musica rilassante che ascolta il patrigno a casa, infondendo in famiglia un’aura di finta e immutabile serenità. Infine è presente in tutto il racconto un importante metatesto sotterraneo che si manifesta anche attraverso le fugaci inquadrature delle parole incise sulla pelle di Camille, che rappresentano visivamente il tormento interiore del personaggio e i suoi traumi. Questi vocaboli appaiono però anche esteriormente, in diversi momenti dei vari episodi, sempre in riferimento alla protagonista. Ne citiamo solo alcuni presenti nel primo episodio intitolato “Vanish” (“Ritorno a casa” nella serie italiana): “drunk” e “bad” (ubriaca e cattiva) sulla scrivania di casa di Camille, “dirt” (sporcacciona) sulla macchina sporca di Camille (in riferimento probabilmente alla prima esperienza sessuale vissuta da adolescente nel capanno del bosco di Wind Gap), il cartello “Don’t be a victim” (non essere una vittima) quando Camille si reca per la prima volta nell’ufficio dello sceriffo, “Wrong” (sbagliato/scorretto/difettoso) che compare sul display dell’autoradio della reporter e, infine, “Vanish” (sparisci/sparisco), parola incisa sul braccio di Camille che viene svelata nell’ultimo frame del primo episodio.

Infine la sceneggiatura è formidabile e gli otto episodi della serie tengono alta la tensione e incollati gli spettatori fino a un finale inquietante ed enigmatico. Un racconto che, forse come mai accaduto prima d’ora, riesce efficacemente a indagare da vicino cosa può accadere a delle donne quando rabbia e abusi vengono repressi nel corso del tempo. La violenza può essere anche declinata al femminile; è un cliché pensare che sia una caratteristica solo degli uomini. Tutti questi elementi fanno di “Sharp Obejcts” una serie già cult a poche settimane dalla messa in onda, quasi come “I segreti di Twin Peaks”, capolavoro di David Lynch che ha segnato per sempre il mondo del piccolo schermo all’inizio degli anni Novanta. D’ora in avanti le prossime serie televisive incentrate su personaggi femminili, controversi e dark come quello di Camille Prekear, dovranno confrontarsi inevitabilmente con “Sharp Obejcts”. E la sfida non sarà facile da vincere.