L’ultimo film di Michele Placido
prende spunto dall’autobiografia del regista pugliese. Nella pellicola, il suo
personaggio viene interpretato da Riccardo Scamarcio (Nicola). Il Sessantotto
romano viene descritto da questo punto di vista particolare. Infatti Nicola è
un poliziotto di origini pugliesi che si arruola nella polizia per pagarsi gli
studi di recitazione. Il suo colonnello (Silvio Orlando) lo obbliga a
infiltrarsi nel movimento studentesco dove è in pieno svolgimento la
contestazione sessantottina. Qui, Nicola conosce la bella Laura (Jasmine
Trinca), di idee cattoliche progressiste, appartenente a una famiglia borghese.
Ma Laura è innamorata del carismatico Libero (Luca Argentero), leader della
contestazione, che sogna uno sviluppo rivoluzionario della mobilitazione
studentesca. Questo “triangolo” si compone e si scompone nel corso del film,
anche se Laura si concede a turno prima a Nicola, poi a Libero e in seguito
ancora a Nicola (in modo anche infantile se vogliamo).
La
vera svolta della storia si ha con la battaglia di Valle Giulia (1° marzo
1968): un durissimo scontro tra le forze dell’ordine e i dimostranti, che
provoca decine di feriti da ambo le parti e che farà scrivere a Pier Paolo
Pasolini una celebre “poesia”, in cui non nasconderà la sua avversione verso
gli studenti “figli di papà” e le sue simpatie per i poliziotti. Nicola subisce
una metamorfosi interiore dopo aver assistito agli scontri: decide di lasciare
la polizia, memore anche del fatto che durante le occupazioni della terra nel
Meridione nel secondo dopoguerra, le forze dell’ordine avevano aperto il fuoco
contro i braccianti, cosa che si ripeterà ad Avola. Cerca allora di capire cosa
sia questo “Grande sogno”, ma alla fine non riuscerà nemmeno ad aiutare Laura
per eccesso di ingenuità.
Diciamolo
subito: il film di Placido non è un granchè. Potrebbe aver influito certamente
la lunga fase di montaggio, con ben 40 minuti di tagli. Però, non è una
giustificazione che regge. Come accadeva in The
Dremers di Bertolucci (anche se non c’è parogone che tenga tra i due film a
ogni livello), anche qui il ’68 fa solo da sfondo alle vite private dei tre
personaggi principali. Inoltre, il tutto viene raccontato con i soliti
stereotipi, basti pensare alla famiglia di Laura: il padre bigotto, il fratello
pseudo-terrorista, ecc. Se si aggiunge che solo il personaggio di Nicola è ben
costruto, mentre gli altri due sembrano troppo piatti per essere relistici, il
giudizio non può essere felice. Non si può ridurre un fenomeno come quello
della contestazione a comparsa in un film che, seppur senza pretese politiche o
di denuncia, si chiama il Grande sogno.
Ci si aspettava qualcosa di più, non tanto dagli attori (la Trinca ha vinto il
premio Mastroianni a Venezia), ma dalla sceneggiatura e dalla regia, visto che
Placido è stato testimone oculare di quegli avvenimenti. Poco rilevanti sono
anche i dialoghi: possibile che non si parli quasi mai di politica, marxismo,
utopia o filosofia nel film? Aggiungiamoci anche un finale brutto e inutile, in
cui Nicola fa la figura dell’imbecille e la storia della famiglia di Laura,
coinvolta in episodi davvero patetici ed ecco che il risultato è stato quello
di creare un film molto commerciale, piacevole per il grande pubblico, ma vuoto
di significati socio-politici: direi troppo “annacquato” per i temi che avrebbe
dovuto affrontare.
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