Cheyenne è una rockstar che, dopo aver
avuto successo negli anni Ottanta, ha deciso di vivere isolato dal mondo nella
sua villa a Dublino assieme alla moglie. Nonostante non sia più in attività,
continua a truccarsi come ai vecchi tempi, vivendo una vita tranquilla ma
noiosa. L’improvvisa morte del padre costringerà il protagonista a
intraprendere un lungo viaggio negli Stati Uniti che gli permetterà di scoprire
le sue radici, di ricongiungersi con la figura paterna e infine di crescere
come uomo.
This Must Be the Place – il nome si riferisce a una celebre
hit dei Talking Heads molto amata dal regista italiano- è un’opera ambiziosa in
cui Paolo Sorrentino vuole
raccontare una storia per il mercato internazionale – il film è girato tra
Dublino e gli Usa – inserendo però il suo tocco personale come sempre.
Dopo il
capolavoro Il divo tutti gli occhi
erano puntati sul talentuoso cineasta napoletano: le attese per la nuova opera
erano quindi altissime, i rischi di sbagliare da parte di Sorrentino altrettanto
alti. Ciononostante il regista porta in scena un lavoro che punta in alto,
tutto affidato nelle mani di Sean Penn
nel ruolo di Cheyenne, una rockstar di mezza età, celebre negli anni Ottanta,
ormai “in pensione” e chiuso in una torre d’avorio, che continua a girare in
strada truccato alla Robert Smith dei
Cure (nelle movenze ricorda però Ozzy Osbourne). Diciamolo subito: la
performance dell’attore americano è quasi perfetta (a parte il doppiaggio
italiano). Non era facile interpretare un personaggio grottesco, avvolto in una
“maschera” fatta di make up che doveva allo stesso tempo trasmettere malinconia
esistenziale, umorismo e lucidità di giudizio. Anche i personaggi secondari che
il protagonista incontra nel corso del suo viaggio, al contempo fisico – nella
provincia americana – e psicologico – alla ricerca della sua identità e del
passato del padre –, sono interessanti e aggiungono un tocco di coralità al
film costellato di tante piccole storie parallele della provincia americana: da
quella dell’inventore del trolley a quella del cercatore di nazisti, ecc.
La storia rappresentata
è in breve un romanzo di formazione di un uomo di mezza età rimasto adolescente
(per questo è affezionato al suo trucco che lo fa apparire giovane e felice
come se fosse ancora sulla cresta dell’onda), senza passato – non conosce nulla
del padre – e senza futuro. La svolta nella sua vita avviene quando muore il
padre e, per la prima volta dopo molti anni, deve vincere la paura di volare –
metafora del timore di andare incontro al suo passato e di diventare adulto –
per recarsi a New York al suo capezzale. Lì viene a conoscenza del fatto che il
padre ha dedicato gran parte della sua vita a scovare un tedesco nazista di
nome Lois Lange che l’aveva umiliato durante l’internamento in un campo di
sterminio. Il “superficiale” Cheyenne non sa nulla dell’Olocausto. Quando
partecipa a una lezione assieme a degli studenti in cui vengono proiettate delle
immagini sulla vita nei lager, scatta in lui qualcosa che gli permette di
vincere la paura e iniziare il viaggio alla ricerca di Lange e anche di se
stesso.
Il film, in
linea con il cinema di Sorrentino, è un’opera postmoderna ricca di ellissi, che
ruota intorno a numerosi temi esistenziali, come: la morte, la solitudine
dell’uomo, la felicità, l’amicizia, l’amore e la crescita interiore. Non tutto
viene “mostrato” allo spettatore, che, disorientato e perplesso, deve fidarsi
del regista per trovare un senso in ciò che vede. Spesso Sorrentino utilizza
più il montaggio che le parole per dare significato all’azione: la bellezza
delle sequenze ripaga in parte a qualche lacuna logico-narrativa della
sceneggiatura. Si pensi per esempio alla carica simbolica dell’indiano che
chiede un passaggio a Cheynne per tornare a casa, ossia nella prateria. Oppure
alla scena del concerto, girata tutta con un’unica lunga inquadratura, in cui
David Byrne si esibisce mentre si mette in moto alle sue spalle un
complicatissimo meccanismo scenografico, mentre il protagonista è solo tra il
pubblico. Colpisce anche la sequenza in cui Cheyenne incontra in un bar un
tatuatore, che viene prima inquadrato da lontano sembrando una persona poco
raccomandabile, mentre poi da vicino, con zoomate successive, si rivela una
persona sensibile che entra in empatia con il protagonista.
Il ritmo del
film è lento dal punto di vista narrativo, alla stessa maniera dei movimenti
del protagonista. La lentezza dell’azione viene però riempita dal ritmo e dalla
suggestione delle immagini – ottima come sempre la fotografia curata da Luca
Bigazzi – e delle inquadrature: Sorrentino ci ha abituati a continui movimenti
di macchina, con improvvisi zoom sui volti dei personaggi e jump cut che
vivacizzano l’andamento della storia. Come nelle altre opere di Sorrentino, il
protagonista viene massacrato dal regista con rapidi primi piani e zoom sui
dettagli del volto come a voler mettere a nudo l’interiorità del personaggio e
la sua solitudine esistenziale davanti al pubblico.
Bisogna però sottolineare
anche qualche aspetto negativo di questa pellicola. Innanzitutto la colonna
sonora non sembra essere all’altezza delle pellicole precedenti. La storia
invece, sceneggiata come sempre dallo stesso Sorrentino, si sviluppa in maniera
troppo lineare e classica, senza offrire nessun novità sul piano dei contenuti:
un personaggio ormai spento “sfrutta” un episodio familiare negativo per
intraprendere un viaggio alla ricerca di se stesso e delle sue radici. Un semplice
viaggio di formazione insomma, con un finale scontato in stile hollywoodiano:
il rigetto del trucco-maschera come simbolo di crescita interiore – dalla
superficie delle cose alla sostanza – e di passaggio dall’età adolescenziale a
quella adulta. A mio avviso erano molto più originali le storie dei film
precedenti, tutte incentrate sull’isolamento esistenziale del protagonista e
con un epilogo a effetto pregno di significati: il suicidio-omicidio (L’uomo in più), il riscatto finale della propria libertà con
un gesto estremo (Le conseguenze
dell’amore), la solitudine totale (L’amico
di famiglia) e la solitudine di fronte al giudizio sulle proprie azioni (Il divo).
In
conclusione questo è complessivamente un buon film, ottimo sul piano estetico, ma
non in grado di soddisfare le aspettative dei seguaci del cineasta napoletano
che con Il divo aveva conquistato il
mondo, coniugando in maniera perfetta la forma (le immagini) e i contenuti (la
storia politica italiana e quella personale del machiavellico Giulio
Andreotti).
VOTO:
(già pubblicato il 6/11/2011 su Mondoattuale)
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