lunedì 30 gennaio 2012

This Must Be the Place

Trama

Cheyenne è una rockstar che, dopo aver avuto successo negli anni Ottanta, ha deciso di vivere isolato dal mondo nella sua villa a Dublino assieme alla moglie. Nonostante non sia più in attività, continua a truccarsi come ai vecchi tempi, vivendo una vita tranquilla ma noiosa. L’improvvisa morte del padre costringerà il protagonista a intraprendere un lungo viaggio negli Stati Uniti che gli permetterà di scoprire le sue radici, di ricongiungersi con la figura paterna e infine di crescere come uomo.



This Must Be the Place – il nome si riferisce a una celebre hit dei Talking Heads molto amata dal regista italiano- è un’opera ambiziosa in cui Paolo Sorrentino vuole raccontare una storia per il mercato internazionale – il film è girato tra Dublino e gli Usa – inserendo però il suo tocco personale come sempre.

Dopo il capolavoro Il divo tutti gli occhi erano puntati sul talentuoso cineasta napoletano: le attese per la nuova opera erano quindi altissime, i rischi di sbagliare da parte di Sorrentino altrettanto alti. Ciononostante il regista porta in scena un lavoro che punta in alto, tutto affidato nelle mani di Sean Penn nel ruolo di Cheyenne, una rockstar di mezza età, celebre negli anni Ottanta, ormai “in pensione” e chiuso in una torre d’avorio, che continua a girare in strada truccato alla  Robert Smith dei Cure (nelle movenze ricorda però Ozzy Osbourne). Diciamolo subito: la performance dell’attore americano è quasi perfetta (a parte il doppiaggio italiano). Non era facile interpretare un personaggio grottesco, avvolto in una “maschera” fatta di make up che doveva allo stesso tempo trasmettere malinconia esistenziale, umorismo e lucidità di giudizio. Anche i personaggi secondari che il protagonista incontra nel corso del suo viaggio, al contempo fisico – nella provincia americana – e psicologico – alla ricerca della sua identità e del passato del padre –, sono interessanti e aggiungono un tocco di coralità al film costellato di tante piccole storie parallele della provincia americana: da quella dell’inventore del trolley a quella del cercatore di nazisti, ecc.

La storia rappresentata è in breve un romanzo di formazione di un uomo di mezza età rimasto adolescente (per questo è affezionato al suo trucco che lo fa apparire giovane e felice come se fosse ancora sulla cresta dell’onda), senza passato – non conosce nulla del padre – e senza futuro. La svolta nella sua vita avviene quando muore il padre e, per la prima volta dopo molti anni, deve vincere la paura di volare – metafora del timore di andare incontro al suo passato e di diventare adulto – per recarsi a New York al suo capezzale. Lì viene a conoscenza del fatto che il padre ha dedicato gran parte della sua vita a scovare un tedesco nazista di nome Lois Lange che l’aveva umiliato durante l’internamento in un campo di sterminio. Il “superficiale” Cheyenne non sa nulla dell’Olocausto. Quando partecipa a una lezione assieme a degli studenti in cui vengono proiettate delle immagini sulla vita nei lager, scatta in lui qualcosa che gli permette di vincere la paura e iniziare il viaggio alla ricerca di Lange e anche di se stesso.

Il film, in linea con il cinema di Sorrentino, è un’opera postmoderna ricca di ellissi, che ruota intorno a numerosi temi esistenziali, come: la morte, la solitudine dell’uomo, la felicità, l’amicizia, l’amore e la crescita interiore. Non tutto viene “mostrato” allo spettatore, che, disorientato e perplesso, deve fidarsi del regista per trovare un senso in ciò che vede. Spesso Sorrentino utilizza più il montaggio che le parole per dare significato all’azione: la bellezza delle sequenze ripaga in parte a qualche lacuna logico-narrativa della sceneggiatura. Si pensi per esempio alla carica simbolica dell’indiano che chiede un passaggio a Cheynne per tornare a casa, ossia nella prateria. Oppure alla scena del concerto, girata tutta con un’unica lunga inquadratura, in cui David Byrne si esibisce mentre si mette in moto alle sue spalle un complicatissimo meccanismo scenografico, mentre il protagonista è solo tra il pubblico. Colpisce anche la sequenza in cui Cheyenne incontra in un bar un tatuatore, che viene prima inquadrato da lontano sembrando una persona poco raccomandabile, mentre poi da vicino, con zoomate successive, si rivela una persona sensibile che entra in empatia con il protagonista.

Il ritmo del film è lento dal punto di vista narrativo, alla stessa maniera dei movimenti del protagonista. La lentezza dell’azione viene però riempita dal ritmo e dalla suggestione delle immagini – ottima come sempre la fotografia curata da Luca Bigazzi – e delle inquadrature: Sorrentino ci ha abituati a continui movimenti di macchina, con improvvisi zoom sui volti dei personaggi e jump cut che vivacizzano l’andamento della storia. Come nelle altre opere di Sorrentino, il protagonista viene massacrato dal regista con rapidi primi piani e zoom sui dettagli del volto come a voler mettere a nudo l’interiorità del personaggio e la sua solitudine esistenziale davanti al pubblico.

Bisogna però sottolineare anche qualche aspetto negativo di questa pellicola. Innanzitutto la colonna sonora non sembra essere all’altezza delle pellicole precedenti. La storia invece, sceneggiata come sempre dallo stesso Sorrentino, si sviluppa in maniera troppo lineare e classica, senza offrire nessun novità sul piano dei contenuti: un personaggio ormai spento “sfrutta” un episodio familiare negativo per intraprendere un viaggio alla ricerca di se stesso e delle sue radici. Un semplice viaggio di formazione insomma, con un finale scontato in stile hollywoodiano: il rigetto del trucco-maschera come simbolo di crescita interiore – dalla superficie delle cose alla sostanza – e di passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta. A mio avviso erano molto più originali le storie dei film precedenti, tutte incentrate sull’isolamento esistenziale del protagonista e con un epilogo a effetto pregno di significati: il suicidio-omicidio (L’uomo in più),  il riscatto finale della propria libertà con un gesto estremo (Le conseguenze dell’amore), la solitudine totale (L’amico di famiglia) e la solitudine di fronte al giudizio sulle proprie azioni (Il divo). 

In conclusione questo è complessivamente un buon film, ottimo sul piano estetico, ma non in grado di soddisfare le aspettative dei seguaci del cineasta napoletano che con Il divo aveva conquistato il mondo, coniugando in maniera perfetta la forma (le immagini) e i contenuti (la storia politica italiana e quella personale del machiavellico Giulio Andreotti).


VOTO: 


(già pubblicato il 6/11/2011 su Mondoattuale)


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