Sinossi: Jep Gambardella, scrittore e giornalista di 65 anni, è il re della mondanità romana. Perso tra una festa notturna e l’altra assieme a una sfilata di personaggi dell’alta società, traveste la propria vacuità morale con un finto divertimento, all’ombra di una Roma artisticamente sublime. L’umanità di una donna farà ricordare a Jep quale sia la vera bellezza...
Dopo l’ambientazione internazionale di This Must Be the Place Paolo Sorrentino torna con La grande bellezza, film in concorso alla 66esima edizione del Festival di Cannes, ad ambientare un sua storia in Italia. Un’opera incentrata sul rapporto tra il sacro e il profano, sottolineato dal contrasto tra una Roma estiva bellissima e la vacuità di una mondanità monotona vissuta dall’ enclave dell’alta società della capitale.
La grande bellezza è un viaggio attraverso la dialettica tra il sacro e profano vissuto dal protagonista Jep Gambardella, ancora una volta interpretato da un inarrivabile Toni Servillo: uno scrittore e giornalista di 65 anni, trasferitosi a Roma da giovane e diventato celebre grazie all’unico romanzo della sua vita “L’apparato umano”. Persosi presto nella gaudente mondanità della capitale, Jep è diventato il re delle feste notturne in cui si celebra il culto dell’estetica (ben rappresentato da un “botox party”) all’interno di sontuose ville o su terrazze con viste mozzafiato sulla Città Eterna. A questi eventi partecipa una sfilata di personaggi usciti dai vari gironi danteschi: nobili ricchi e decaduti, attori e attrici, intellettuali veri e presunti, dive sfigurate dalla chirurgia estetica e giovani ballerine sexy, alti prelati e imprenditori cafoni. I riti profani si consumano tutti tra il tramonto e l’alba della monumentale Roma - ritratta magistralmente dal regista in scene notturne che umiliano To Rome with Love di Woody Allen – che, bellissima, assiste a questi baccanali, silente e indifferente.
Se nella prima parte della storia il protagonista intraprende una discesa etica che lo porta sempre di più verso una solitudine esistenziale (una costante nelle opere di Sorrentino), ecco che l’incontro con l’umanità genuina di Ramona (una brillante Sabrina Ferilli), una spogliarellista di mezza età, gli fa riscoprire la “vera bellezza” della vita: l’amore verso gli altri. Riaffiora così in Jep il ricordo del suo primo amore da ragazzo, raffigurato dal regista da un’eccezionale passaggio da un soffitto bianco a un mare blu ripreso al chiaro di luna.
Il terzo “stadio” da cui passa Jep è quello della beatitudine, un traguardo raggiungibile solo dopo essere passato dalla “stazione” dell’abbandono: la morte del suo primo amore e del nuovo amore, e l’allontanamento del suo migliore e forse unico amico Romano (un malinconico e rassegnato Carlo Verdone). Il finale del film si concentra sull’incontro con un altro tipo di vera bellezza, quella trascendentale e interiore, simboleggiata dalla presenza di una “santa” a casa dello stesso peccatore, il protagonista: una suora, simile a Madre Teresa di Calcutta, che ricorda ai suoi commensali che la vera povertà è quella che si vive e che le radici sono importanti. Nella scena della sparizione della giraffa, Jep capisce quale sia il trucco della sua esistenza miserabile per ritrovare la sua grande, propria bellezza: abbandonarsi nel miraggio dell’amore giovanile per troppo tempo dimenticato, che sempre più riprende vita nella sua mente. La pellicola si chiude con la voce fuori campo del protagonista che dice: “E’ tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli spauriti, incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”.
La grande bellezza sembra una Dolce vita attualizzata: nel capolavoro di Federico Fellini c’era ancora un divertimento sincero nella mondanità del boom economico, ora, sembra dirci Sorrentino, la dolce malinconia dell’epoca si è trasformata in una totale vacuità esistenziale e morale. Emblematica da questo punto di vista la sequenza della passeggiata di Jep in via Veneto, ormai strada buia e semideserta, vivacissima invece negli anni Cinquanta quando era popolata da sciami di Vip, che ora invece si nascondono sulle terrazze.
L’ultimo, grandissimo lavoro del regista napoletano è eccezionale dal punto di vista narrativo, estetico, registico (numerosi i virtuosismi di macchina che distinguono ogni pellicola di Sorrentino), musicale (una sontuosa colonna sonora affidata a Lele Marchitelli, lunga tutto il film, che svolge una funzione empatica nella descrizione delle varie scene sacre e profane), del montaggio (Cristiano Travaglioli) e della fotografia (ancora una volta diretta dall’ottimo Luca Bigazzi). Il film è un grandissimi lavoro corale, a cui hanno partecipato tantissimi attori italiani da applausi, a cominciare dal solito Toni Servillo.
In conclusione, La grande bellezza recupera lo spessore estetico e contenutistico delle opere precedenti a This Must Be the Place, culminante ne Il Divo, arrivando ad eguagliarne l’importanza grazie anche alla sintonia tra il più grande regista e il più grande attore del cinema italiano attuale, con un’importante differenza però: ne Il Divo la storia raccontata era profondamente legata alle vicende storiche italiane; qui ci troviamo invece di fronte a un racconto esistenziale e universale ambientato a Roma, nel pieno della società e dell’estetica del postmoderno.
Una “grande bellezza” per gli occhi e le orecchie, difficilmente dimenticabile come un dolce sogno d’amore al chiaro di luna da cui non ci si vorrebbe mai svegliare.
VOTO: