Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) è un ragazzino
parigino di 12 anni che vive l’adolescenza senza la comprensione dei propri
genitori (la madre è fredda, mentre il padre è tale solo dal punto di vista
legale). A scuola va male, viene punito continuamente e a casa si sente
incompreso e poco amato. La situazione peggiora quando scopre che la madre ha
una relazione con un altro uomo. Antoine, sempre più solo, può contare solo
sull’amicizia col coetaneo Renè, con cui ruba una macchina da scrivere. Dopo il
furto i genitori di Antoine decidono di mandarlo in riformatorio, da cui però
riuscirà a scappare.
Il primo lungometraggio di François Truffaut – forse anche il più autobiografico – segna l’affermazione della nuova corrente francese chiamata Nouvelle Vague. Siamo alla fine degli anni Cinquanta e un gruppo di giovani cinefili e critici legati ai Cahiers du cinéma propone un cinema personale, fortemente autobiografico, in contrasto con le convenzioni dell’industria e le tecniche classiche del montaggio hollywoodiano. Convinti che il regista debba esprimere una propria visione del mondo – “la politica degli autori” – sia nello stile che nella sceneggiatura, questi giovani cineasti parigini si fanno interpreti di una cultura quasi apolitica del divertimento e del consumo, tentando di catturare la realtà della vita senza artifici.
L’opera d’esordio di Truffaut, uno dei maggiori alfieri
della Nouvelle Vague, si afferma a Cannes vincendo il premio per la miglior
regia e fa emergere la nuova “onda” a livello mondiale. I quattrocento colpi è una pietra miliare della cinematografia
internazionale, che deve molto al neorealismo. La triste storia del
protagonista Antoine – in pratica l’alter ego del regista – è raccontata senza
pietismi, in modo crudo ed estremamente realistico. È un ragazzo difficile,
ribelle, che si scontra con tutte le istituzioni con cui viene a contatto: la
famiglia, la scuola, la polizia e il riformatorio. Vengono così magnificamente esposti
alcuni concetti marcusiani – come sistema, esclusione, repressione e società
totalitaria – che entreranno a far parte
della cultura del Sessantotto, quando i giovani cercheranno di opporsi al
potere in ogni sua forma.
Dal punto di vista tecnico-stilistico I quattrocento colpi presenta due
celeberrime sequenze che diventeranno dei veri e propri modelli da seguire e
citare da molti cineasti successivi: quella relativa al colloquio tra il
protagonista e la psicologa del riformatorio e il sorprendente finale. Nella
prima sequenza Truffaut sperimenta la tecnica della “trasgressione del
campo/contro campo”. Antoine, seduto dietro un tavolo, mentre risponde alle
domande della psicologa viene inquadrato frontalmente in mezzo primo piano. Le
risposte si susseguono in una serie di dissolvenze incrociate legate alla voce
fuori campo della psicologa, la cui inquadratura viene negata allo spettatore.
Questa tecnica, che sovverte le consuetudini della “situazione dialogo” legata
all’alternanza di campo e controcampo, è finalizzata a rafforzare il rapporto
identificativo e affettivo tra lo spettatore e l’adolescente durante la sua
confessione, permettendo di descrivere attraverso le immagini il suo
smarrimento.
Infine, la lunga e sublime sequenza conclusiva – forse
uno dei migliori finali della storia del cinema – è costituita dalla fuga di
Antoine dal riformatorio-carcere verso la libertà, simboleggiata qui dal mare.
La lunga corsa del protagonista termina improvvisamente sul bagnasciuga, quando,
rimanendo meravigliato dalla visione del mare che non ha mai visto, si volta
verso il pubblico e l’espressione del suo volto resta impressa indelebilmente
nel fermo immagine più famoso della storia del cinema. Una tecnica innovativa per
esprimere un finale aperto, così come innovativa fu la corrente della Nouvelle
Vague.
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